Fuori dalla consueta alternanza dei “pre” e dei “post”, le opere di Eugenio Moi sono nuove. È una pittura ossimorica la sua, cui non basterebbe la nozione unitaria di una definizione stilistica estratta dalla grammatica dell’arte.
A vere e proprie pulsioni materico-cromatiche, si contrappone la sospensione, la leggerezza, il silenzio di soggetti i quali, a loro volta, sembrano regredire espressivamente fino ai primordi figurativi – quelli così cari all’Informale – per farsi mediatori acutissimi tra l’astratto della forma e il concreto di quello che rappresentano.
La loro evidenza quasi tattile è così lontana da ogni immediato riferimento con la realtà, che si può parlare di Metafisica nel senso originario del termine: qualcosa che non elude la fisicità, tutt’altro. La supera con i suoi stessi mezzi, la decontestualizza.
Moi dà un luogo ben definito e compatto a ciò che spaziale non è: le inquietudini, i silenzi sigillati in corpi senza bocche, la solitudine e la malinconia, lo struggimento e contemporaneamente quell’accettazione lucida dell’esser soli o del sentirsi tali, da cui sgorga la forza ostinata di attendere senza uno spiraglio di speranza: cieli e mari vuoti, distese in cui si coagula, al più, una nuvola. Sentire la mancanza, si dice quando la solitudine è arginata solo da una presenza interna, dall’immaginazione assorta che figura il ricordo di chi non c’è.
Mancante è Uomo incompiuto (2010), un volto di cui una metà è dissolta nel suo colore diafano, in transito come una nuvola verso un compimento che l’età adulta non assicura affatto. Compaiono lineamenti somatici sul tratto di viso sorto da occidente, enigmatico come un discorso interrotto e più evocativo di mille discorsi iniziati e finiti. L’incompiutezza coinvolge empaticamente lo spettatore nel processo di creazione dell’opera. Le fragilità che convivono con le nostre risorse psicologiche ci fanno sopravvivere a un dissolvimento liquido e incalzante, e ci rendono consapevoli di quanto siamo tutti un po’ incompiuti: un ramoscello esile di una pianta che sembra nata già longeva, come l’ulivo, è misurazione mentale affiorata alla superficie della nostra natura dinamica, in divenire, mancante.
Tratti a volte severamente arcaici, altre giocosamente arrotondati, ritagliano con nettezza figure ibridate di angeli terreni o di creature che si esita a definire zoomorfe piuttosto che antropomorfe, di giganti, arlecchini, uomini, bambini e donne ardenti di fiamme che li incendiano senza ferirli; oppure feriti (e apparentemente noncuranti) da un taglio senza indugi praticato da un bisturi esistenziale, alla ricerca del famoso cuore, quello talmente abusato e sovraccaricato simbolicamente da essere sparito, da rendersi irrintracciabile e preda rivitalizzata.
Teste come uova perfette – poggiate in bilico sul collo o in equilibrio delicato – sono senza lineamenti somatici, talvolta rannuvolate, letteralmente. Come una maschera, una striscia di nuvola copre lo sguardo di una donna (Donna con nuvola passeggera, 2009), o di una coppia protetta dalla luce ciarliera del plein air (Amanti rannuvolati, 2009): qualcosa rimane custodito e segreto, la fisiognomica cambia tattica espressiva, si manifesta per simboli più che per dettagli e giochi di lumeggiature o chiaroscuri.
I protagonisti della scena pittorica di Moi sono innestati, si fanno largo e spazio in un tema paesaggistico talmente definito da farsi architettonico: di lì la consistenza murale di distese di acqua o di cielo opachi e pregni di colore, pavimentazioni e soffitti di varchi e archi a tutto sesto, aperti su un mondo capace di accogliere il vuoto, di permettere a chi vi si affaccia o ne è immerso, di sentire la propria solitudine senza possibilità di aggiramenti, senza orpelli decorativi di albe e tramonti.
Questa natura è estranea quanto inesorabilmente presente, sgorga da una frazione chiara e distinta di campiture in cui va a confondersi il ruolo della linea di demarcazione tra regioni cromatiche: non si sa dove sia l’orizzonte in Moi, è tutto sullo stesso piano, come accade nei sogni, dove le regole funzionali della prospettiva non aiutano, non servono, sono scartate. L’alto e il basso, il vicino e il lontano, il primo piano e lo sfondo in Moi sono interscambiabili, lottano alla pari e scelgono lo spettatore come arbitro della sua percezione.
Eppure, in tutta l’estraneità di una composta scansione plastica di oggetti e soggetti, i temi cari a Moi ci sono intimi e familiari: l’inadeguatezza del gigante verde che stringe nella mano una seggiola troppo piccola per lui, quel non riuscire a trovare un posto proprio e il sentirsi ingombranti, esclusi dall’unità di misura corrente (Vita del gigante, 2008). Quella degli Arlecchini che sperimentano la miniaturizzazione del vinto, di chi è sopraffatto da una quotidianità fatta di problemi che paiono insormontabili, eppure risibili per la sembianza di innocuità e familiarità.
La maturità di un Arlecchino canuto che è cresciuto abbastanza per saper sperare anche di fronte all’impresa più disperante, come la traversata a cavallo di un mare, perché quando si è appreso ad amare e ad essere amati, si può tentare l’impossibile (Arlecchino attraversa il mare, 2008)....
Cristina Muccioli