MANUELA FURLAN
dal 25 maggio 2011 al 05 giugno 2011
Libreria Bocca - Galleria Vittorio Emanuele II 12, 20121 Milano
Noi non ricordiamo gli anni, né i mesi, nemmeno i giorni per intero, ma i momenti. Nel suo scorrere indifferente e ineluttabile il tempo talvolta inciampa, lascia traccia di caduta come un fermo immagine nella nostra memoria. Il ritmo della narrazione si annoda in istanti e in accadimenti che trasmutano dalla realtà esterna a quella interna. Si imprimono negli occhi e poi nella memoria, vengono evocati nei sogni, nell'immaginazione fulminea che vive di dettagli. Manuela Furlan ha la sensibilità, l'attenzione per la caduta nell'attimo di cui siamo soggetti o spettatori, o forse meglio: testimoni. Le scene rappresentate nella sua pittura agilissima, nervosa, introversa e competente, frutto di uno sguardo per nulla avido, ma in allerta, sono di una lucidità analitica tesa e inquietante, sono emersioni eruttive di vita e movimento. La velocità è un lusso per l'artista contemporaneo, conquistato asceticamente, dove per askesis non si intende nulla di effimero o nobilmente spirituale, ma quel che originariamente significava: esercizio. E' nella rapidità infatti che si gioca la differenza tra lo scarabocchio e l'opera d'arte. Tocca dirlo ancora? Si. Con la raccomandazione di rileggere le Lezioni americane di Calvino, per avvicinarsi alla cultura dell'arte contemporanea. I segni sono pochi, sono esatti, sono denotanti e non descrittivi né didascalici.
Furlan potrebbe anche non firmare i suoi lavori, in un mondo ideale beninteso, perchè la sagoma di un ragazzo, di un vecchio e di un cane hanno il carattere di una firma a mano, requisito che permane ostinatamente anche nella virtualità del nostro mondo evaporato nella tecnologia. Busti e gambe di cui si percepisce la massa muscolare sotto i calzoni. Mani intrecciate rigonfie e deformate dall'artrite che sorreggono una testa dallo sguardo perso, dalle palpebre oblique sotto il peso degli anni, dei giorni che si accaniscono a risorgere. Uomo al caffè, più che il ritratto di un uomo, è la rappresentazione della radicalità di uno stato d'animo sigillato in una tristezza composta, in un'angoscia trattenuta, arresa, svelata dall'artista con tocco incandescente aranciato che macchia il corpo incolore, in un ambiente diafano e fantasmatico di un gerontocomio preso a ore, al prezzo di un caffè. La presenza di un cane a volte catturato dal colore, compare in molte delle opere di Furlan.
Ad apparire randagio è l'umano, che gli sta vicino. Il suo volto è quasi sempre incompiuto, addirittura cancellato da una pennellata impietosa. Rimane in lui il corpo animale, il corpo vitale che passeggia con andatura meccanica, e si ferma se si ferma il cane, con la paletta in mano per asportare i suoi escrementi. Una vita diligente, la sua, una condotta civile, una lotta afona con un ambiente che lo sopraffà, lo inghiotte con una matericità ispessita, raggrumata, raggrinzita, lo permea di sé, e da cui può uscire a tratti, a momenti, con la rivincita del nero che salva i suoi contorni. Chi si impone sulla scena è il cane. La sua anatomia, la sua dinamicità, le fauci aperte per l'abbaio furibondo di fronte ai nonnulla di un'esistenza, di un mondo, che per l'uomo sono sempre così poco interessanti...
L'uomo non ha rabbia. La rabbia la prendeva per il morso di un cane ammalato. Poi hanno inventato l'antirabbica, benemerita certo, insieme a una congerie ovattata di vaccinazioni emozionali che ci hanno addestrati all'oblio e a una mansuetudine mascherata da serenità come nessun animale mai. La persona è stata liquidata dalla relazione, dall'appartenenza viva e volontaria a una comunità. Due seduti su una panchina, guardano in direzioni opposte per non correre il rischio di incrociare gli sguardi. La donna non è bionda, ma gialla come il cavallo alle sue spalle che occupa la sua inconsistenza piantandole gli zoccoli nel petto. C'è un grande atto di sovversione nell'uso del colore. Il lilla che intride un'opera su cartone è uno sberleffo alla vie en rose. I soggetti sono uno più uno, e non faranno mai due, anche avessero passato la vita insieme. Quel cane che ritorna è un intruso. Copritelo con la mano, e rimarrà un bellissimo quadro. Prima o poi però dovrete toglierla, e vi ricorderete delle intrusioni, della tolleranza forzata, del dover prendersi cura, del sentimento dell'amore che per lo scrittore Jonathan Safran Foer è “fare per me cose che si hanno in odio. E' questo che significa essere una famiglia”.
Cristina Muccioli