MARIO RACITI Pastelli
dal 02 febbraio 2002 al 28 febbraio 2002
Libreria Bocca - Galleria Vittorio Emanuele II 12, 20121 Milano
Quando, nel 1952, mi iscrissi a Giurisprudenza anziché a Brera, pur desiderando a tutti i costi di “fare il pittore”, incominciavo già a seguire quella linea “trasgressiva” che mi seguirà nel mio fare poi professionale, di pittore vero. Un po’ anarchico, non adeguato ai canoni correnti (usavo la pennellata “à plat” in tempo di pittura ananlitica!), non seguivo il fare del momento come altri, non sentivo l’arte come forma (non rassomigliavo, come molti affermavano, a Novelli o a Twombly per via del bianco e della matita); mi avvicinavo alla povertà della stesura (negli anni 70) più per rarefazione spirituale che per pragmatismo esecutivo (“troppo poetica per appartenere alla nuova pittura, la tua” mi disse Fagone).
Inseguivo chimere altre, era un viaggio che svolgeva verso un non dove, in una atmosfera visionaria di tensione e dissipazione. Ho pensato sempre alla mia pittura, che viaggia e varia nella psiche profonda del viaggiatore, come a un romanzo di formazione, alla maniera di Enrico di Ofterdingen di cui Klaus Wolbert ha citato per il mio lavoro il “fiore azzurro”, che è simbolo romantico.
Per cui, se, per alcuni, sono “borderline”, se altri, come Barilli (su l’Unità), mi ritengono ancora un informale “come un kamikaze giapponese che combatte ancora su un’isola senza sapere che la guerra è finita”, (ma quanto tempo è passato dal vecchio informale, quasi quanto quello del “fare pittura”): io so solo che, memore dell’arte di sempre, invento tra le macerie dell’oggi “una pittura ultima”, ed è colpa del mio inestinguibile, pressante sogno, se sono kandiskianamente necessitato da una forma che è quella e non si può classificare alla luce dei regolamenti vigenti.
Ed in questo senso mi sento “moderno” (e non “modernista”): perché vivo drammaticamente l’impossibilità della pittura di esserci come presenza (“Non fosse artista”, cito Gualdoni, “Mario Raciti vorrebbe una pittura felice…”), ma come traccia visionaria, come velato altrove, in attesa di un domani più vero, oggi dolorosamente impossibile.
“I FIORI DEL PROFONDO” è l’ultima evoluzione della mia pittura. Dopo le figurazioni fantastiche degli anni ’60, le “Presenze assenze” degli anni ’70, le “Mitologie” degli anni ’80, negli anni ’90 nascono i Misteri che evolvono nel 2000, nei “Why” (drammatico “perché” del Cristo sulla croce). Attualmente, rivivendo il mito di Proserpina, che, prigioniera nell’Ade, anela a comunicare sulla terra colla madre Demetra, dea delle messi, facendo nascere sul pianeta i fiori a primavera, apro il dramma alla speranza, Speranza, oggi velata dalla privazione di un contatto umano, speranza di un nuovo vivere.