ROBERTO RAMPINELLI

ROBERTO RAMPINELLI

dal 16 maggio 1996 al 16 giugno 1996

Libreria Bocca - Galleria Vittorio Emanuele II 12, 20121 Milano

Nell’arte moderna e contemporanea i pittori ricorrono spesso agli stessi temi, con i quali misurarsi quasi a constatare come il ritorno dell’uguale – voglio dire su uno stesso tema del mundus immaginalis  che, scrive Holderlin nell’Iperione, ci matura a un sapere di cui pareva si fosse perduta la traccia e la speranza – segnali per l’autore la diversità che il trascorrere del tempo e dello stile comporta, nella medesima psiche o di uno stato d’animo, che può essere percepita come diversa da ogni altro suo momento. Non per nulla Claude Monet aveva trasferito tale percezione del mutare dell’io sur le motif, cioè nel mutare della stessa soggettività del tempo che nel trascorrere delle ore trasforma l’oggetto di base secondo il variare della luce. Invece nelle “nature morte” di Roberto Rampinelli questo ritorno sullo stesso tema finisce per essere una specie di ossessiva, molteplice riprova della stessa complessità dell’Es, che solo attraverso la constatazione della propria continua diversità può affermare la sua stessa identità di fondo: che è un’identificazione del proprio stesso mutare per essere se stesso.

Senonchè, prima di dipingere, il maestro parigino creava con l’immense èquivoque de reflets la natura: piantava le ninfee nel suo giardino di Giverny, le faceva crescere, le lasciava galleggiare nell’acqua, costruiva un piccolo ponte pieno di fiori su un ruscello; e solo quando la natura era diventata come egli voleva, cominciava a dipingerla. Rampinelli non ha l’ambizione di far nascere la natura: gli basta disporla su un orizzonte dove l’alterna e indistinta unione della luce e dell’ombra non è interpretata in senso tattile, come tramite di emergenza prospettica, ma come vita interna che dà il senso della “spazio curvo”, di qualcosa cioè che è al limite di se stesso, che sprigiona pertanto più energia potenziale che piegandosi, simile a un arco, aumenta lo stato di tensione – si direbbe – di quell’orizzonte di attesa (lo gombrichiano Umgreifende?) che pare additare gli oggetti inclusi come gli stessi nuclei parventi di energia del visibile. Prende un piano o una superficie e vi posa le sue mele, i suoi fiori, i suoi vasetti: così che, in ogni quadro, avvertiamo la presenza di una mente luminosa che ha costruito intellettualmente una scena, nella quale l’infinito naturale e l’infinito psichico si sovrappongono.

Al pari della metis colorata di Ulisse, il percorso creativo di Rampinelli è libero, avventuroso e complesso pur se resta fisso sugli stessi motivi, nella certezza che un olio su una piccola carta non nasce da sensazioni estranee alla pratica dell’arte, da impulsi noumenici di accento diverso, ma si costruisce pazientemente, nel corso di un dialogo ininterrotto con le cose, per merito della capacità autonoma di esprimere la forma. E’ da questa base, da dietro le solide mura di questo principium, che l’artista bergamasco ascolta, nell’arco di tempo della sua lunga esperienza pittorica e incisoria, voci vicine e lontane. Vicine sono quelle dei maggiori protagonisti dell’arte italiana dei primi decenni del Novecento, le voci di Morandi, de Chirico, Carrà, della Metafisica e del Realismo magico; più lontane quelle di Corot, che sempre ama intensamente, e del Cèzanne profetico del Mont Sainte-Victoire, che rappresenta per lui un faro, un archetipo ideale. Più lontane ancora quelle di Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca, e degli altri grandi interpreti dell’eterno spirito italiano. E si può dire che, alla fine, nonostante la lontananza, ma al di là di ogni novecentesco echeggiamento, sono quelle che per Rampinelli, insieme alle suggestioni per i silenzi e i sogni di Carlo Ceci e della “scuola urbinate”, hanno un più partecipe e commosso ascolto.

Di fronte a opere degli ultimi due anni quali Incontro in Val d’Orcia, Discesa e Insieme, come non sentire una continua aderenza alla vita nell’esercizio del dipingere, portato avanti con tanta amorosa concentrazione da Rampinelli? Quel passare, per esempio, dalla felice sicurezza dei colori e delle forme di Rosa in fuga e di Orizzonte inquieto,  da quella pura, solare luminosità di Tre mele e di Presenze in rosso ai colori sempre più labili, più autunnali, più sommessi di Teatrino e di Notturno insieme, dove prevale lo scuro dell’ombra, non corrisponde forse al mutare dei colori della nostra vita, dei nostri stessi sogni? In queste opere mature di Rampinelli c’è il medesimo passare da un senso di assoluta e calda estate, che sembra rievocare alla nostra memoria la quiete e la nostalgia di un’Italia remota e nascosta, alle impronte, semplicissime forme di limoni, di fichi, di pere, di ortensie, di garofani, di tulipani, di recipienti, di scatole, di terrine, fantomatiche silhouettes di una realtà che va allontanandosi e che si vuol trattenere, cenere spenta che serba ancora la fugace traccia di qualcosa che fu, ma che percepisce come un diafano riflesso. Sono lievi cortine d’ombra, quinte impolverate che, come le acque ferme quando fanno la ragia, arrestano lo sguardo ad un cristallo appena smerigliato.

Floriano De Santi

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